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La ristrutturazione edilizia e la riqualificazione del patrimonio edilizio

Aggiornamento: 25 nov

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Il D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) all’Art. 3 (Definizioni degli interventi edilizi) comma 1 lettera d), riprendendo il dettato dell’art. 31 della legge 5 agosto 1978, n. 457, definisce gli interventi di “ristrutturazione edilizia” come “interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”, specificando che “tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”.

Già nella versione promulgata nel 2001 veniva inoltre precisato che la casistica ricomprendeva anche gli interventi “consistenti nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”, escludendo dalla categoria di intervento la possibilità di incrementare la volumetria dell’edificio o modificarne la sagoma, il sedime e financo le caratteristiche dei materiali, e distinguendo la categoria della “ristrutturazione edilizia” dalla “nuova costruzione” in ragione dei necessari elementi di continuità con l’edificio originario e di conservazione di componenti identificative dell'immobile preesistente.

La Lombardia, con la Legge Regionale 11 marzo 2005, N. 12 (Legge per il governo del territorio), nella classificazione delle categorie di intervento stilata all’art. 27 (Interventi edilizi), richiamando la norma nazionale, aveva modificato la definizione di “ristrutturazione edilizia” comprendendo anche gli interventi “consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o totale”, ma nel solo “rispetto della volumetria preesistente”. Con ciò escludendo i riferimenti a sagoma e sedime e limitando le condizioni di appartenenza alla categoria della “ristrutturazione edilizia” alla sola conservazione della volumetria edilizia.

Il Consiglio di Stato, con le sentenze 309/2011 e 224/2016, riaffermando il valore dei principi fondamentali dello Stato in materia di governo del territorio, di qualificazione delle categorie edilizie e di uniformità del titolo abilitativo, limitando l’autonomia normativa regionale in materia edilizia, ha sancito l’illegittimità della definizione proposta dalla Legge lombarda e ha confermato che le disposizioni che definiscono le categorie degli interventi rappresentano principi fondamentali, in conformità ai quali viene disciplinato il regime dei titoli abilitativi, e che la linea di distinzione fra le differenti tipologie d’intervento edilizio non può non essere dettata in modo uniforme sull’intero territorio nazionale.

L’attuale definizione di “ristrutturazione edilizia”, infatti, discende dall’entrata in vigore della Legge n. 120 del 2020 (Conversione in legge del Decreto Semplificazioni), che modifica il dettato del comma 1 lettera d) dell’art. 3 del D.P.R. 380/2001, comprendendo nell’ambito della categoria, fatti salvi gli interventi su edifici vincolati o ricadenti in Zona A (o assimilabile), gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, per l'applicazione della normativa sull'accessibilità, per l'istallazione di impianti tecnologici e per l'efficientamento energetico, e (nei casi previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali) gli incrementi di volumetria.

L’evoluzione della normativa ha, quindi, condotto all’individuazione di due distinte modalità di rinnovamento del patrimonio edilizio esistente inquadrabili come “ristrutturazione edilizia”:

  • la prima, che non comporta la demolizione del preesistente fabbricato e che può prevedere anche modifiche di significativo impatto, compresi, in linea generale, l’inserimento di nuovi volumi o la modifica della sagoma;

  • la seconda, caratterizzata da demolizione e ricostruzione dell'edificio demolito.

L’ambito della “ristrutturazione edilizia” si estende, dunque, a una casistica assai ampia di interventi, distinguendosi, di fatto, dalla “nuova costruzione” per la circostanza che prevede la presenza di un edificio originario preesistente, di cui occorre essere certi dei valori di consistenza, rispetto al quale sarebbe possibile procedere con interventi di vario grado, i quali possono arrivare alla demolizione completa e alla ricostruzione di un fabbricato completamente nuovo, anche con gli aumenti di volumetria “espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali”.

La sentenza del Consiglio di Stato N. 08542 del 04/11/2025 chiarisce, infine, le condizioni essenziali affinché si possa inquadrare l’intervento nell’ambito della “ristrutturazione edilizia” ai sensi del comma 1 lettera d) dell’art. 3 D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380:

  1. l’intervento deve avere a oggetto un unico edificio, nel senso che esorbita dall’ambito della “ristrutturazione ricostruttiva” l’accorpamento di volumi precedentemente espressi da manufatti diversi ovvero il frazionamento di un volume originario in più edifici di nuova realizzazione; l’intervento, cioè, deve agire sull’edificio preesistente al fine di dare continuità all’immobile pregresso, crollato o demolito, non potendo mai prescindere, la nozione di ristrutturazione edilizia, dall’obiettivo di recupero del singolo immobile che ne costituisce oggetto (Cons. Stato 3 aprile 2025, n. 2857);

  2. l’intervento di “demoricostruzione” presuppone necessariamente una contestualità temporale tra la demolizione e la ricostruzione, che si traduce nel procedimento “unitario” dell’intervento prospettato con la SCIA, nel senso, che entrambe, demolizione e la ricostruzione, debbono essere legittimate dal medesimo titolo;

  3. il volume dell’edificio ricostruito non può superare quello del fabbricato demolito, perché si stabilisce che gli incrementi di volumetria sono ammissibili «nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali» (sul punto, il Consiglio di Stato, sez. IV, 2 maggio 2024, n. 4005, ha chiarito che «a differenza della fattispecie della ricostruzione con diversa sagoma e sedime, le modifiche e gli ampliamenti volumetrici di manufatti edilizi continuano ad integrare, di regola, interventi di nuova costruzione (art. 3 comma 1 lett. e. 1 D.P.R. n. 380/2001), sicché l’incremento volumetrico eccezionalmente conseguibile con un intervento di ristrutturazione edilizia è soltanto quello specificamente ammesso una tantum dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali per tale tipo di intervento edilizio e non quello (eventualmente) maggiore connesso all’indice edificatorio previsto per gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica»).

Appare dunque plausibile, in base a quest’ultima condizione, che l’intervento di “ristrutturazione edilizia” possa usufruire degli incrementi volumetrici previsti dall’art. 12 del D.lgs. n. 28 del 03/03/2011 (Promozione dell’uso di energia di fonti rinnovabili) che, per gli interventi di ristrutturazione rilevanti su edifici esistenti, a fronte di una determinata efficienza energetica, possono beneficiare, in sede di rilascio del titolo edilizio, di un bonus volumetrico del 5%, e per quelli previsti dal comma 2-bis dell’art. 4 della L.R. 31/2014 (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e la riqualificazione del suolo degradato), così come modificata dalla L.R. 18/2019, relativa agli interventi di ristrutturazione edilizia che riducono il fabbisogno di energia primaria, tramite lo scomputo della SL delle superfici relative ai sistemi tecnici di involucro.

Per contro, gli incrementi volumetrici determinati dai meccanismi perequativi previsti dal Piani di Governo del Territorio (cfr. Milano), appaiono riconducibili alla categoria della “nuova costruzione”.

Come affermato dalla sentenza del Consiglio di Stato N. 08542 del 04/11/2025, “conducono a qualificare l’intervento come “nuova costruzione” tutte quelle opere che non siano meramente funzionali al riuso del volume precedente e che comportino una trasformazione del territorio ulteriore rispetto a quella già determinata dall’immobile demolito. Infatti, nelle varie evoluzioni della nozione di “ristrutturazione ricostruttiva” che si sono susseguite, è rinvenibile un minimo comune denominatore, consistente nel fatto che l’intervento deve comunque risultare “neutro” sotto il profilo dell’impatto sul territorio nella sua dimensione fisica”.

Tale condizione, che allude alla “fedele ricostruzione” originaria, “deve ritenersi presente anche nell’attuale quadro normativo e si evince dall’art. 10 della Legge n. 120 del 2020, il quale, pur avendo eliminato i «precedenti requisiti presupponenti una rigida “continuità” tra le caratteristiche strutturali dell’immobile preesistente e quelle del manufatto da realizzare», ha comunque ricondotto tali innovazioni agli scopi di «assicurare il recupero e la qualificazione del patrimonio edilizio esistente» e di «contenimento del consumo di suolo», così confermando la finalità “conservativa” sottesa al concetto di ristrutturazione (Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 2857 del 2025)”.

A fronte di tutto ciò, gli interventi di “ristrutturazione edilizia” possono essere considerati tali a condizione che siano rispettati i requisiti sopra indicati dell’unicità dell’immobile interessato dall’intervento, della contestualità tra demolizione e ricostruzione, del mero utilizzo della volumetria preesistente senza ulteriori trasformazioni della morfologia del territorio.

A completamento del ragionamento sulla fattispecie della “ristrutturazione edilizia”, poiché la sentenza del Consiglio di Stato N. 08542 del 04/11/2025 mira a sottolineare che gli interventi che ricadono nella categoria devono intendersi limitati a quanto strettamente funzionale a riutilizzare la volumetria disponibile senza oltrepassare il limite della “neutralità”, la realizzazione di lavori ulteriori rispetto al mero recupero del volume preesistente, come per esempio quelli necessari a realizzare un parcheggio, non sono ammissibili, perché comportano un rimodellamento della morfologia del terreno (opere di sbancamento del terreno, costruzione del muro di contenimento, realizzazione del seminterrato, della rampa carraia e della sede viaria di collegamento), che conduce a qualificare il complessivo intervento come “nuova costruzione”. 

Risulta, di conseguenza, illegittima la pretesa, da parte dei Comuni, di reperire parcheggi privati “spazi privati di sosta a servizio delle proprietà, che soddisfano la dotazione minima prescritta dall’art. 41-sexies, della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge Tognoli), che infatti si applica espressamente alle sole “nuove costruzioni” e non alle “ristrutturazioni edilizie” e che così recita: “Nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione”, così come l’art.12 delle N.T.A. del P.d.R. del PGT di Milano.

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