“SIMBOLISMO ETICO” E REALISMO TRASFIGURATO: GIUSEPPE PELLIZZA DA VOLPEDO TRA VISIONE, TECNICA E COMPOSIZIONE
- Gabriele

- 1 giorno fa
- Tempo di lettura: 12 min

A più di un secolo dall’ultima e unica mostra monografica dedicata all’artista piemontese, Milano ripercorre la vicenda artistica e biografica di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907) in un’esposizione ideata dalla Galleria d’Arte Moderna, curata da Aurora Scotti e Paola Zatti.
Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868–1907) rappresenta una delle voci più originali del rinnovamento artistico che, tra Otto e Novecento, attraversa l’Italia e l’Europa. Pur non frequentando direttamente i circoli simbolisti di Parigi o Bruxelles, Pellizza vive pienamente il clima culturale che caratterizza il fin de siècle europeo con la crisi del positivismo, la centralità dell’interiorità, la nascita di nuove forme di spiritualità laica e la riscoperta del ruolo dell’artista come interprete di valori universali. La sua opera, spesso collocata in modo quasi esclusivo nell’ambito del Divisionismo italiano, merita una più ampia collocazione storica e teorica, che ne evidenzi le profonde connessioni con il Simbolismo europeo: la tensione verso l’interiorità, l’interesse per una verità superiore al dato fenomenico e l’idea dell’arte come rivelazione. La sensibilità luministica, l’impianto compositivo rigoroso e l’orientamento etico, che caratterizzano la sua produzione, autorizzano a definire la sua poetica un simbolismo etico, volto a tradurre in immagini i valori universali della dignità, della solidarietà e del progresso umano.
Pellizza è spesso letto come pittore del realismo sociale o, alternativamente, come esponente del Divisionismo. Tuttavia, tale dicotomia riduttiva oscura la profonda integrazione fra tecnica e progetto ideologico insita nella sua pittura. La nozione di simbolismo etico descrive meglio come Pellizza trasformi procedure ottiche e compositive in dispositivi simbolici finalizzati a rappresentare la dignità collettiva e la coscienza storica dei ceti popolari. L’ipotesi è che la prospettiva, la luce e la struttura del gruppo non sono meri strumenti formali ma elementi sintattici, che veicolano una morale laica e una visione teleologica del progresso sociale. La pittura di Pellizza non si limita a rappresentare il reale, ma lo interpreta trasfigurandolo, fino a condurlo su un piano ideale. In questa visione, che include e supera il Divisionismo, la luce diventa il veicolo principale della verità e della spiritualità laica. A differenza di Previati, che tende a spiritualizzare il soggetto attraverso un misticismo cristiano, e di Segantini, la cui poetica ascetica si fonda sulla natura come luogo del sublime, Pellizza sviluppa una forma di spiritualità laica: la luce che avvolge i lavoratori è la luce della dignità umana, dell’azione comune, non della trascendenza religiosa.
Pellizza indirizza la propria ricerca verso un umanesimo sociale, coniugando aspirazioni ideali e progettualità politica. La sua pittura conserva una struttura razionale e una disciplina formale che la avvicinano più alla tradizione classica che alla visionarietà simbolista. Proprio in questa sintesi equilibrata risiede la sua originalità all’interno del panorama europeo.
Per Pellizza, la luce non è una semplice condizione fisica, ma il principio che ordina e unifica la scena. Il Divisionismo gli offre un mezzo per scomporre la materia cromatica e per far emergere, attraverso la vibrazione dei colori, l’energia morale che informa l’immagine. La luce non solo modella i corpi, ma li investe di significato.
Visione del mondo e poetica: linee generali
La poetica pellizziana nasce dall’intersezione di tre nodi:
radicamento nella realtà rurale di Volpedo e consapevolezza delle condizioni del lavoro;
adesione a una visione morale e progressista della storia umana;
ricerca tecnica della luce come veicolo di significato (divisionismo).
Questi fattori generano una pittura che non denuncia con veemenza, ma esprime dignità etica attraverso l’armonia compositiva e la qualità luminosa. Tale progetto confluisce nella costruzione di un mito civile: la collettività come soggetto storico ed etico.
La luce come etica, la prospettiva come ordine morale, la frontalità come visibilità politica, convergono nella definizione di un simbolismo laico, fondato sulla consapevolezza storica della collettività.
Prospettiva centrale: ordine morale e centralità collettiva
La prospettiva centrale assume in Pellizza una valenza simbolica. Non è mera soluzione spaziale: il punto di fuga diventa il fulcro del progetto morale. Nel Quarto Stato, collocando la triade di figure principali sull’asse centrale, Pellizza universalizza il soggetto, tanto che l’individuo perde la connotazione aneddotica per divenire archetipo umano. Questa scelta richiama la razionalità compositiva rinascimentale (es. Raffaello) ma la rovescia: se in Raffaello il centro è il sapere, in Pellizza è la collettività in cammino. Tale centralizzazione conferisce alla scena un ordine etico: la marcia non è caotica ma diretta verso un orizzonte di giustizia.¹
La collocazione delle figure principali sull’asse di simmetria conferisce loro un valore archetipico. Nell’icona del Quarto Stato, l'uomo con la barba, la donna con il bambino e l'uomo col berretto compongono una triade che funge da allegoria dell’umanità intera. La loro avanzata lungo la linea centrale dello spazio li rende portatori di una missione universale.
La prospettiva centrale svolge qui tre funzioni simboliche:
universalizzazione: ciò che sta al centro assume un valore collettivo, non individuale;
legittimazione morale: la centralità geometrica equilibra la centralità etica dei soggetti rappresentati;
ritualità laica: l’impostazione frontale richiama la scansione solenne e ieratica dei rilievi arcaici o dei frisi classici.
Pellizza usa dunque la prospettiva centrale per costruire una vera e propria liturgia visiva del progresso. Nel contesto del realismo sociale, la frontalità della folla è anche un modo per dichiarare che la comunità dei lavoratori è un soggetto visibile, che non si nasconde e non deve più essere marginalizzato. La prospettiva centrale diventa così lo strumento attraverso cui il pittore afferma la visibilità politica e simbolica del popolo.
Luce e ombra: grammatica morale
Per Pellizza la luce è grammatica: non si limita a modellare volumi, ma segnala valore morale. L’adozione di procedure divisioniste, scomposizione del colore, tessitura puntiforme o puntinata, consente una vibrazione luminosa che avvolge la massa umana e trasmette energia collettiva. L’ombra, soprattutto la massa d’ombra del primo piano in opere come La Processione, non è semplice assenza di luce ma basamento sociale: memoria, fatica, condizione storica da cui la comunità emerge. La dialettica ombra/luce si traduce in metafora storica: dal fondo oscuro (stato attuale di subalternità) la massa sale verso la luce (coscienza e progresso).²
Per Pellizza la luce non è soltanto un fenomeno ottico: è il vettore principale di significato, la forma visibile dell’etica. L’artista la utilizza per definire non soltanto i volumi, ma soprattutto lo statuto morale dei soggetti rappresentati.
Se la luce è rivelazione, l’ombra in Pellizza diventa attesa, germoglio, potenzialità. Essa non è mai drammatica o minacciosa, come nel Simbolismo nordico, ma rappresenta il luogo da cui emerge la comunità e verso cui essa ritorna nella ciclicità della vita.
Nel Quarto Stato, il gruppo in primo piano emerge gradualmente dall’ombra del portico e ciò ha una valenza simbolica precisa. L’ombra rappresenta il passato, la condizione di subalternità, è il luogo della gestazione storica, il confine fra ciò che era e ciò che sta per diventare. La dialettica luministica è sempre un percorso: dalla penombra alla piena luminosità. L’artista costruisce così un simbolismo processuale, mai statico. L’umanità non è ancora arrivata, ma sta avanzando verso la luce.
Il divisionismo, inteso come metodo di scomposizione cromatica, offre a Pellizza la possibilità di «far parlare» la luce. Il procedimento non è mero artifizio ottico: l’effetto vibratorio stabilisce una rete luminosa che unifica figure e spazio, traducendo in immagine la solidarietà morale. Inoltre, la pratica meticolosa di bozzetti, fotografie e griglie prospettiche rivela un approccio quasi scientifico alla composizione: regola e ragionamento al servizio dell’ethos artistico.⁷
Il gruppo umano: dalla singolarità alla tipizzazione
Il paragone fra Il Quarto Stato (1901) e la Scuola di Atene (1509–1511) può apparire ardito: la prima è un’icona del realismo sociale e del simbolismo etico, la seconda un manifesto dell’Umanesimo classico. Tuttavia, le due opere condividono un nucleo strutturale e concettuale sorprendentemente affine: entrambe si fondano su una visione del mondo centrata sull’uomo, e articolano tale visione attraverso una rigorosa prospettiva centrale, una solenne frontalità e una rappresentazione della comunità come corpo storico e morale.

Nella Scuola di Atene, la prospettiva centrale organizza lo spazio come un perfetto sistema armonico in cui l’architettura è metafora dell’ordine cosmico. Il punto di fuga coincide con il dialogo tra Platone e Aristotele, cioè con il centro della filosofia occidentale, e i filosofi e gli scienziati formano un coro laico, un pantheon del sapere occidentale. Le pose variate, i gesti, i gruppi riflettono la pluralità del pensiero umano.
Nel Quarto Stato, Pellizza assume la stessa struttura prospettica ma ne rovescia la valenza: il punto di fuga non coincide più con l’élite dei sapienti, bensì con l’avanzare della comunità dei lavoratori. La prospettiva diventa così un ordine morale democratico, non più fondato sulla distinzione ma sull’universalità. La folla forma un altro tipo di coro: un corpo coeso che avanza con passo comune. La molteplicità non è erudita ma sociale, la pluralità non è intellettuale ma esistenziale.
Raffaello colloca Platone e Aristotele al centro della scena, non solo come figure storiche, ma come archetipi del pensiero: l’idealismo e il realismo, il cielo e la terra, il principio e la misura.
Pellizza risponde con una triade, che svolge una analoga funzione, l’uomo barbuto, la donna e il bambino, l’uomo col berretto: essi rappresentano archetipi dell’umanità moderna. Non individui, ma figure universali: il lavoratore maturo, la maternità come futuro, il giovane operaio.
Entrambe le folle rappresentano un universo armonico: in Raffaello l’armonia è contemplativa, fondata sulla discussione e sul dialogo, in Pellizza l’armonia è processionale, fondata sulla decisione e sull’azione collettiva. Se la Scuola di Atene incarna il mito del sapere e della filosofia, il Quarto Stato incarna il mito civile del popolo sovrano.
Il confronto tra Il Quarto Stato e la Scuola di Atene rivela una sorprendente continuità nella rappresentazione della centralità umana, unita però a un radicale cambiamento del paradigma storico.Raffaello rappresenta la celebrazione del sapere come fondamento dell’ordine del mondo, Pellizza rappresenta la celebrazione della comunità come fondamento della giustizia sociale. Entrambi alimentano una vera e propria iconografia della civiltà, restituendo una visione del mondo in cui l’uomo, singolo o collettivo, è protagonista del proprio destino.
Sperimentazione: dal Fienile al Quarto Stato
L’opera di Giuseppe Pellizza da Volpedo è sospesa tra la ricerca di un linguaggio pittorico oggettivo, quasi scientifico e un’attenzione radicale per il mondo emotivo dei suoi personaggi, osservati nella loro interiorità e nelle loro condizioni di vita. Pellizza percepisce il mondo sociale come un organismo vivente in cui i singoli, pur conservando la propria identità psicologica, si muovono in una rete di relazioni, ruoli, rituali. Le masse nei suoi quadri non sono mai indifferenziate: ogni personaggio porta dentro di sé un frammento di storia emotiva che diventa parte della storia collettiva. Analizzando le opere in sequenza, si coglie un processo sperimentale coerente:
- Il Fienile (1893): laboratorio della grammatica luminosa (la fiammella del chierichetto) e della soglia tra interno/esterno; la luce domestica indica coscienza personale ma ancora fragile.⁴

- La Processione (1893–95): sperimentazione della prospettiva centrale in forma embrionale; presenza di una fanciulla illuminata come punto focale etico; ombra del primo piano intesa come zoccolo sociale.⁵

- Ambasciatori della fame (1892), La Fiumana (1895-96): progressiva astrazione del gruppo umano in massa ordinata, test per la composizione del massimo.⁶

- Il Quarto Stato (1901): sintesi compiuta, frontalità totale, luce collettiva come epifania etica, triade centrale e massa come soggetto storico.

Questo percorso dimostra che il capolavoro non è episodio isolato, ma risultato di un lungo perfezionamento tecnico e simbolico. In ciascuna di queste opere, la fisionomia psicologica dei protagonisti si sviluppa parallelamente alla loro collocazione socio-culturale, come se la dignità individuale e la condizione collettiva fossero le due facce dello stesso racconto. Con il procedere degli anni, Pellizza passa da rappresentazioni comunitarie fondate su rituali tradizionali a rappresentazioni collettive fondate su una nuova coscienza politica dei ceti popolari, fino all’esito finale de Il Quarto Stato.
In quest’ultima opera, la massa compatta dei lavoratori non perde nulla della sua individualità emotiva, anzi, acquista una dignità nuova, non più legata al rituale religioso o comunitario, ma alla condizione storica. La centralità della luce, che nei quadri precedenti era frammentaria, fragile o simbolicamente circoscritta, qui si fa piena, frontale, quasi epifanica. La dimensione emotiva dei volti, calma, fiera, composta, diventa il volto stesso della rivendicazione sociale. Pellizza inventa una nuova forma di “psicologia politica”: la forza del movimento non è data dalla rabbia, ma dalla coscienza della propria umanità.
Il modello reale
Pellizza, per i suoi dipinti, sceglie persone reali come modelli (gli abitanti di Volpedo). Questa scelta rappresenta l’impegno etico verso la riconoscibilità sociale del popolo e la possibilità di trasformare un volto specifico in archetipo universale. La pratica del ritratto dal vero conferisce autenticità alle espressioni, rendendo credibile la rappresentazione morale, mentre la successiva tipizzazione opera la transizione dal contingente all’esemplare.⁸ Egli, infatti, opera una progressiva trasfigurazione che conduce dal particolare al tipo. Le figure nel gruppo sono trattate con attenzione psicologica, volti, posture, oggetti, ma la loro aggregazione è pensata per produrre un effetto di coralità: la comunità come soggetto. Donne e fanciulli acquisiscono ruoli simbolici distinti: le donne come garanti morali e di continuità; i fanciulli come rappresentazione del futuro e della vulnerabilità che giustifica l’azione collettiva.³
In prospettiva culturale anche Pier Paolo Pasolini, poeta, cineasta e teorico dell’immagine, nella sua produzione cinematografica, utilizzerà attori non professionisti. Pur separati da mezzo secolo e da codici mediali radicalmente differenti, entrambi hanno assunto come nucleo della propria poetica l’uomo popolare: non in senso folclorico né realistico in senso ottocentesco, ma quale figura dotata di valore etico, antropologico e quasi sacrale. Con sorprendenti elementi di connessione, Pasolini impiega frequentemente nei suoi film (Accattone, 1961; Il Vangelo secondo Matteo, 1964) inquadrature frontali, posizionando personaggi popolari in dialogo diretto con lo spettatore. Tale impostazione, pur nell’apparente spontaneità, costruisce un dispositivo di coinvolgimento morale, per cui i volti dei poveri non sono oggetti di narrazione, bensì soggetti che reclamano ascolto. Nel Vangelo secondo Matteo, per esempio, le processioni non sono meri eventi narrativi, bensì cerimonie antropologiche: movimenti collettivi che rivelano la dimensione sacrale del quotidiano. Il camminare insieme, nei luoghi arcaici del Meridione italiano, conferisce ai corpi una valenza di icona vivente, che ricorda la coralità solenne delle tele pellizziane: una analogia moderna nell’uso di persone reali e nella sacralizzazione laica del popolo.

Questi paralleli non suggeriscono identità stilistiche, ma genealogie intellettuali e affinità di trattamento tematico: entrambi perseguono un’estetica dell’arcaico. Pellizza tende a monumentalizzare figure che, sebbene contemporanee, assumono la fissità dei tipi universali, le donne e i bambini del suo repertorio non sono ritratti aneddotici, ma incarnazioni di una umanità primigenia, essenziale. Pasolini vede nei volti del popolo l’ultimo residuo di un mondo non ancora corrotto dal consumo e dalla modernità omologante. Per questo sceglie non-attori, contadini, pescatori, donne dai tratti arcaici, considerandoli depositari di una verità antropologica che l’Italia industriale stava perdendo.
Il punto più profondo di affinità è la concezione di una sacralità laica. Pellizza, pur provenendo da un retroterra positivista e socialista idealista, infonde ai suoi soggetti un’aura quasi sacrale, che deriva dalla dignità del lavoro, dalla coralità e dall’aspirazione alla giustizia sociale. Pasolini, in modo analogo, unisce religione e marxismo in un’inedita forma di spiritualità del popolo. Nel Vangelo secondo Matteo, Cristo è interpretato come un giovane povero, quasi un militante rivoluzionario: il sacro si manifesta nel volto degli ultimi, non nei simboli liturgici. In entrambi, la sacralità non è trascendente ma incarnata nel corpo collettivo dei subalterni, i quali divengono il luogo privilegiato della verità e della storia.
Per contro, vi è un punto di rottura teorica essenziale. Pellizza è animato da una fiducia nel progresso umano e sociale, anche laddove la sua visione si riveste di toni drammatici. La marcia del Quarto Stato è un avanzare verso la luce. Pasolini, al contrario, guarda il popolo con nostalgia tragica: non avanzano, bensì arretrano davanti all’industrializzazione, perdendo la loro autenticità antropologica. Dove Pellizza vede un futuro possibile, Pasolini vede un passato che si estingue. Eppure, in questa divergenza, entrambi convergono nell’urgenza morale di fissare l’umano nel momento della sua verità.
Conclusione
La vicenda personale di Pellizza, scarti affettivi, difficoltà economiche, tensioni interiori e il suicidio del 1907, ha influito sulla ricezione critica e sulla costruzione del mito dell’artista. Pur evitando determinismi biografici, è possibile leggere la sua opera come il tentativo di tradurre in immagine una tensione etica personale: disciplina, idealismo e sofferenza trovano riscontro in una pittura rigorosa, ascetica nel metodo e carica di pietas nel contenuto.9
Pellizza da Volpedo realizza una pratica pittorica in cui la tecnica (divisionismo, costruzione prospettica, bozzetto rigoroso) non è fine a sé stessa, ma linguaggio di una visione del mondo: la comunità popolare come soggetto storico, la luce come principio morale, l’ombra come memoria sociale. L’unità tra visione, poetica e tecnica costituisce la forza interpretativa del simbolismo etico pellizziano: una tradizione che lega il realismo documentario alla grande allegoria civile, e che rende la sua pittura ancora oggi un caso esemplare di arte impegnata, profondamente umana e formalmente sorvegliata.
Egli costruisce un linguaggio, un codice semantico unitario,10 che fonde:
- rigore tecnico (divisionismo come strumento analitico e spirituale);
- idealità classica (ordine, armonia, misura);
- simbolismo etico (progressione, dignità, solidarietà);
- coscienza sociale (la comunità come soggetto storico).
In questo senso, la sua opera rappresenta una sintesi originale e moderna, capace di superare le dicotomie tra naturalismo e simbolismo, tra impegno e contemplazione, tra descrizione e trascendenza.
Note
La centralità prospettica in Il Quarto Stato è stata discussa in numerose monografie; si veda in particolare L. Caramel, Pellizza da Volpedo, Electa, Milano 1974, pp. 89–104.
Sul valore metaforico di luce e ombra in Pellizza, cfr. R. Bossaglia, Pellizza da Volpedo, Electa, Milano 1975, pp. 43–55; e F. Gualdoni, “Etica e sentimento nella pittura di Pellizza”, Rivista di Storia dell’Arte, 89 (2000), pp. 112–119.
Per approfondire i ruoli simbolici di donne e fanciulli nelle opere pellizziane, si confrontino le riflessioni in E. Crispolti, Il Quarto Stato e la pittura sociale italiana, Einaudi, Torino 1981, pp. 67–74.
Analisi dettagliata del Fienile e del simbolismo della fiammella cfr. A. Rovetta, Giuseppe Pellizza da Volpedo. Il processo creativo, Olschki, Firenze 1993, pp. 120–129.
Sul posizionamento della fanciulla in La Processione, v. schede critiche e analisi in L. Caramel (1974) e in contributi recenti a cataloghi di mostre.
Sulla sequenza di bozzetti e l’evoluzione verso il Quarto Stato, si veda la ricostruzione cronologica in A. Negri, Pellizza da Volpedo e il Quarto Stato, Feltrinelli, Milano 1981.
Il rapporto tra divisionismo e significato morale è affrontato in M. Fagiolo dell’Arco, Il Divisionismo italiano: scienza e simbolo, Roma 1970.
Sulla pratica del modello reale e sulla trasfigurazione tipologica, v. studi su Pellizza e su Pasolini (confronto transmediale) in G. Brunetta, “Processioni pasoliniane”, in Studi pasoliniani, Venezia 2010, pp. 77–91.
Sul rapporto tra biografia e ricezione critica in Pellizza e sulla sua morte, cfr. E. Crispolti (1981) e le analisi biografiche in Rovetta (1993).
Per i confronti con Segantini e Previati, utili gli studi di riferimento in L. Caramel (1974) e in testi monografici su Segantini; per il confronto con Pasolini cfr. P.P. Pasolini, Saggi sul cinema, Garzanti, Milano 1999.




Commenti